Non servono molte parole per introdurre un maestro come Ramesh Balsekar, già conosciuto e amato dai lettori italiani. La sua grazia e compassione, unite ad un raffinato intelletto, hanno permesso a migliaia di ricercatori sia orientali, ma soprattutto occidentali, di avvicinarsi all’antica tradizione dell’Advaita.
“Pace e armonia nella vita quotidiana” è forse uno dei libri in assoluto più interessanti per cogliere questo messaggio nella sua dimensione per così dire “più pratica” e quindi più intrigante per chi ha magari ascoltato da altri insegnanti e maestri il concetto che non esiste nessuno nella forma se non Coscienza, ma non lo ha ancora potuto integrare nella propria quotidianità. Il grande saggio di Bombay, che per anni ha accolto nel suo salotto ricercatori provenienti da tutto il mondo, sembra quasi anticipare le domande che il lettore potrebbe porre sul messaggio di non dualità e risponde ad ogni possibile obiezione con inattaccabile chiarezza e deliziosa ironia.
Detto questo, vale la pena di spendere giusto due parole per chiarire alcuni punti che i lettori potrebbero trovare interessanti nel confrontare il messaggio di Ramesh con quello di altri maestri contemporanei. Ramesh cita più volte l’esistenza di un ego nel saggio (colui che ha compreso profondamente e totalmente l’assenza di un individuo nel corpo-mente) in quanto egli ancora risponde al suo nome se chiamato, citando a proposito anche Ramana Maharshi che si voltava laddove qualcuno lo chiamasse per nome. Ramesh sottolinea che il saggio sa che chi apparentemente sta chiamando e chi apparentemente risponde sono in realtà un’unica Coscienza, ma vuole sottolineare come non sia l’identificazione, diciamo “funzionale”, con il corpo-mente la ragione della sofferenza umana, bensì il concetto di essere gli autori delle azioni con tutto ciò che questo comporta. Si tratta di una distinzione interessante che può forse placare i dubbi di coloro che possono intravedere nella impersonalità del messaggio dell’Advaita il rischio di una specie di “apatia” nei confronti della vita o persino il pericolo di non essere più funzionanti a livello sociale. In realtà l’ego è già solo un concetto, come ripete Ramesh, e quindi tutto quello che si dissolve nella comprensione è un’idea che porta sofferenza. È già e solo la Coscienza ad agire attraverso la forma, tramite quella che lui chiama la “programmazione” del corpo-mente, ovvero i condizionamenti sociali uniti alle caratteristiche genetiche della forma. È sempre e solo la Volontà Divina ad agire: un Dio che non è certo un’entità antropomorfizzata, ma il nostro vero “io” che si muove da una mente globale, non più divisa dal concetto di separazione.
Un’altra interessante argomentazione posta da Ramesh riguardo al fatto che la ragione della sofferenza sia solo un’idea è la sua peculiare distinzione tra “dualità” e “dualismo”. La prima è la radice dell’esistenza stessa, il motore della vita in quanto tale: la manifestazione si innesta su un principio di positivo e negativo, femminile e maschile, di polarità contrapposte che si completano e si annullano a vicenda. Il “dualismo” è invece l’identificazione con solo una parte di questa polarità, con tutta la sofferenza che tale parzialità comporta: lo scegliere un “bene” contro un “male”, senza coglierne l’assoluta perfezione nello schema generale della manifestazione. Ovviamente è solo il dualismo che deve essere superato attraverso la comprensione, laddove invece la dualità è compresa e accettata dal saggio come parte intrinseca della natura fenomenica stessa. Tale accettazione è alla base della pace e armonia in cui saggio dimora.
Infine, vale la pena di menzionare un aspetto forse non molto citato da altri maestri contemporanei di cui Ramesh parla verso la fine del libro. Attraverso le parole del saggio Mukundaraj, Ramesh parla del dissolvimento della realtà oggettiva come risultato finale della comprensione del nostro vero Sé. Citando i vari stadi della Coscienza — stato di veglia, di sogno, di sonno profondo e di osservazione di tali stati (turiya) — Ramesh ci dice che persino questo ultimo stato, quello dell’osservatore, non è il nostro luogo finale di riposo. Ciò che siamo è completamente oltre la relazione soggetto-oggetto, persino se l’oggetto è così sottile come può essere il sonno profondo, che viene in qualche modo “registrato” e “ricordato” al momento del risveglio dalla Coscienza. La nostra vera natura, dice Ramesh, è oltre la Pura Soggettività, è il Vuoto stesso, che coincide con la Realtà Assoluta.
Shakti Caterina Maggi
giovedì 15 aprile 2010
Iscriviti a:
Post (Atom)